Giuseppe Antonio Caccioli

Allegoria dell’Asia, 1716-1718

Penna, pennello, acquerello, carta; 344 × 249 mm (inv. 32168); collezione Antonio Certani
© Fondazione Giorgio Cini, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe

Alfonso Trombetti

Bozzetti di scena con architetture ‘orientali’ e ambientazioni esotiche, settimo e ottavo decennio del XIX secolo. Matita, penna, pennello, acquerello, carta; 181 × 228 mm (inv. 34202); collezione Antonio Certani

© Fondazione Giorgio Cini, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe

Alfonso Trombetti

Bozzetti di scena con architetture ‘orientali’ e ambientazioni esotiche, settimo e ottavo decennio del XIX secolo. Matita, penna, pennello, acquerello, carta; 179 × 227 mm (inv. 34217); collezione Antonio Certani

© Fondazione Giorgio Cini, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe

L’ARCHITETTURA ITALIANA AD EST. VISIONI SPIAZZANTI DI FUTURO

Luca Molinari

Nell’antichità il braccio di mare che separa l’India dallo Sri Lanka era molto più stretto, quasi che le due terre potessero toccarsi, e in quel tratto di mondo i mercanti dall’Impero cinese e da quello romano s’incontravano per scambiare merci e informazioni. Il fatto è confermato da evidenze archeologiche e personalmente ho sempre trovato affascinate pensare che nella nostra Storia sono esistiti luoghi che erano vere porte spazio-temporali tra mondi lontani, apparentemente separati tra di loro, che individuavano dei luoghi specifici e transitori per comunicare, dimostrando che il mondo è sempre stato piccolo e sottoposto a cortocircuiti inattesi.

Oltre a questo pensavo a quei mercanti di origine italica che da almeno duemila anni si sono spinti ai margini del mondo conosciuto (a noi). Cittadini dell’Impero, prima, poi genovesi, veneziani e pisani che hanno viaggiato e fissato poli commerciali lungo tutto il Mediterraneo, le vie della Seta e delle Spezie, monaci e uomini di chiesa che percorrevano le stesse strade per evangelizzare, artisti, ingegneri, architetti e artigiani che erano chiamati per il loro sapere tecnico e il primato artistico, generando tutti insieme un potente flusso di conoscenza, informazioni, prodotti e lingue che ha nutrito una parte importante della storia dell’umanità.

La fragilità politica della penisola italica, frammentata tra mille campanili ed interessi contrastanti, unita alla sua posizione baricentrica nel cuore del mare Mediterraneo, ha reso le nostre terre un centro naturale di attraversamenti e convivenze che si è riversato in ogni espressione culturale, artistica ed economica, obbligando le nostre genti a un atteggiamento di ascolto obbligato delle realtà differenti con cui entravano in contatto per ottenere le migliori condizioni.

Insieme il nostro Paese ha vissuto per quasi due millenni del riflesso potente della cultura classica che si era plasmato in epoca imperiale e che si è progressivamente rigenerato lungo i secoli attraverso una lunga serie di stagioni creative che riconoscevano alla nostra cultura artistica un primato estetico e simbolico che ha attratto le élite politiche ed economiche nei paesi più remoti.

Fragilità politica, espansionismo commerciale e primato artistico sono alla base del flusso di tanti dei nostri mercanti e artisti, obbligati a viaggiare per aprire nuove tratte economiche e per offrire servizi che erano considerati esclusiva della nostra cultura.

Ma questa specifica condizione obbligava i nostri compatrioti a un atteggiamento culturale e psicologico diverso da altre popolazioni perché, incapaci o impossibilitati da un approccio aggressivo e colonialista, dimostravano sempre una capacità di adattamento e ascolto delle diverse condizioni ambientali che si è spesso tramutato in una capacità di sintesi e visione capace di generare risultati sorprendenti e visionari. Capacità di adattamento che si univa a una formazione profondamente umanistica che rifuggiva una visione rigida e dogmatica del mondo, riportando al centro l’uomo, le sue tradizioni, il primato della realtà e la capacità di costruire nuovi mondi, interpretando le condizioni esistenti attraverso scelte spiazzanti.

L’architettura è probabilmente una di quelle discipline in cui questa affermazione prende maggiormente corpo per la necessità che ha da sempre l’autore di mettere in tensione il proprio percorso individuale e creativo con il contesto che è chiamato a trasformare. E nel caso di progettisti chiamati in terre lontane dal proprio contesto di appartenenza questa condizione raggiunge gradi ancora più estremi e complessi.

Con la disgregazione dell’Impero Romano e l’ingresso in quello che oggi ancora chiamiamo Medio Evo si avvia una relazione sempre più forte tra gli Est dell’Europa e l’Italia: necessità di aprire e rafforzare le vie commerciali verso i regni d’Oriente e la Cina, viaggi di missionari verso terre ignote da catechizzare, flusso di tecnici, artigiani, architetti e ingegneri cercati per le competenze militari e costruttive, si combinavano con il fascino che molte di queste terre nutrivano ancora per i fasti di una Roma idealizzata che ha solleticato per secoli imperatori e governanti.

Ma quello che tiene insieme le tante cronache di viaggio o molte delle opere realizzate è l’atteggiamento mentale e culturale di questi attori, accomunati da una diversa capacità di entrare in contatto con queste realtà così lontane, di ascoltarle con attenzione acuta, raccontarle e tradurle in opere differenti e uniche. Muovendo dall’inizio del primo millennio fino al XIX secolo possiamo riconoscere due filoni principali che danno sostanza a queste considerazioni: il primo è rappresentato dalla via della seta e delle spezie come flusso di merci, idee, narrazioni che ha nutrito un dialogo unico e originale tra Italia e la Cina, partendo dalle Cronache di Marco Polo fino ad arrivare ai testi e alle mappe del gesuita Matteo Ricci che svela in maniera scientifica un mondo avvolto ancora nel mistero. In entrambi i casi gli autori non solo viaggiano per conoscere, ma si stabilizzano e assimilano un mondo di cui entrano a far parte al punto da guadagnare una considerazione negata ad altri stranieri. Ma il flusso è ambivalente perché le cronache di questi autori, come di altri mercanti e gesuiti (basti pensare ai disegni visionari e immaginati di Athanasius Kirkner) portano nel nostro Paese un’attenzione figurativa e sognante dell’Impero Celeste che verrà trasformata in una lunga stagione di cineserie che nutriranno le corti italiane e, poi, europee, per almeno due secoli.

Un secondo, importante, filone è rappresentato dalla via che porta alla Polonia e, soprattutto, alla Russia degli zar a partire dal regno rafforzato e in crescita di Ivan III che apre le porte a un flusso costante di architetti, ingegneri e artigiani che avranno un influsso decisivo nella costruzione del pensiero estetico della Russia moderna. La cattedrale dell’Assunzione a Mosca di Aristotele Fioravanti e le mura del Cremlino con le sue torri ad opera di Pietro Antonio Solari e Aloisio da Carcano sono la sorprendente fusione tra gli albori del Rinascimento italiano e un mondo locale che cercava un’identità linguistica che era ancora incerta. I contributi di questi autori sono prima di tutto di natura tecnica con l’introduzione di processi costruttivi evoluti e si fondono con una visionarietà formale eccezionale che ha definito le basi dell’architettura istituzionale russa.

Le tante torri che seguono lo sviluppo delle mura del Cremlino sono un esercizio d’invenzione linguistica spiazzante, che mescola le geometrie e le forme del primo Rinascimento lombardo con la cultura decorativa russa, generando architetture innovative che avranno un impatto decisivo sul gusto istituzionale di questo regno almeno fino alla realizzazione di San Pietroburgo e l’inizio di un’altra avventura tutta italiana. In questo caso la volontà politica e ideologica di una serie costante di regnanti che allinea Pietro il Grande, Caterina I, Elisabetta e Caterina II si concentra nella nuova capitale come laboratorio architettonico che vuole allineare la Russia a tutte le altre, grandi, potenze illuminate europee in cui, se la filosofia doveva essere francese e l’ingegneria tedesca, l’arte e l’architettura vedeva una predilezione evidente per la mano italiana e la sua capacità di importare il moderno gusto neoclassico in Russia. Anche in questo caso non si tratta di un’operazione di semplice importazione/colonizzazione culturale, ma Francesco Rastrelli, Domenico Trezzini, Antonio Rinaldi, Giacomo Quarenghi e Carlo Rossi lungo quasi due secoli portano nella nuova capitale la qualità della loro formazione classicista e di una idea moderna di architettura per lo Stato, che s’incontra sorprendentemente con la luce rarefatta e l’amore per i colori di quelle terre, arrivando a costruire le basi per una nuova generazione di progettisti russi moderni e l’avvio di una formazione accademica e professionale assente fino a quel momento in Russia.

La presenza di architetti e tecnici italiani in Russia continua lungo almeno otto secoli e vede un processo di assimilazione e scambio decisivo per la storia dell’architettura locale almeno fino ai primi decenni del ‘900 quando il quadro politico e sociale vive la rivoluzione sovietica e l’esperienza del Costruttivismo diventa un fenomeno centrale nella formazione di autori modernisti come Giuseppe Terragni.

La stagione progettuale del secolo appena passato vive una forma di globalizzazione dei flussi e delle esperienze italiane nell’Est del mondo sempre più complesse. Abbiamo autori italiani che, seguendo le vicende espansionistiche fasciste operano in Albania, Dodecanneso ed Eritrea generando un esperanto linguistico colto e diffuso nei territori; progettisti che viaggiano seguendo il richiamo del nuovo mondo cinese e in particolare di Shanghai, e altri che rincorrono il sogno rivoluzionario sovietico. Si tratta di esperienze frammentarie che ogni volta dimostrano una particolare attenzione al contesto come luogo ideale e fisico da interrogare per generare forme e spazi mai scontati.

Nel periodo contemporaneo paradossalmente gli architetti italiani si trovano a vivere una condizione simile a quella cinquecentesca: uno stato debole che non investe nella promozione internazionale delle sue eccellenze, una grande capacità individuale di viaggiare e cercare occasioni di qualità, l’autorevolezza del sapere italiano sia per le discipline tecniche che per quelle creative a cui viene ancora riconosciuto un approccio umanistico e attento alla grana fine dei luoghi e delle sue comunità.

Le esperienze raccolte in questo volume con i lavori di RPbW, Massimiliano Fuksas, Mario Cucinella, Archea, Michele de Lucchi e Piuarch tra Federazione Russa, Cina, Albania, Georgia e Vietnam sono le specchio più evidente di questa condizione e della capacità di generare identità innovativa, grazie all’ascolto dei luoghi e delle loro tradizioni più profonde, alla centralità dell’umanità nel progetto, l’attenzione alla qualità diffusa degli spazi progettati nell’uso della luce, nella relazione con il paesaggio circostante, nella qualità dei particolari costruttivi e nell’uso dei materiali.

Condizione che possiamo anche trovare nel lavoro di altri progettisti italiani come Gae Aulenti, Italo Rota, Mario Bellini, Piero Lissoni, Antonio Citterio e Patricia Viel che, oltre ai paesi sopra citati, hanno lavorato in India, Giappone e Indonesia.

L’idea di innovazione nei progetti italiani passa attraverso un’idea circolare e umanistica di ambiente e sostenibilità che immagina i luoghi come frammenti integrati di urbanità necessaria e sull’ideazione di forme e linguaggi capaci di esprimere una visionarietà sottile, raramente aggressiva e misurata nella relazione con il contesto.

In un mondo in cui le distanze si sono radicalmente ridotte e i gusti si sono spesso appiattiti in un mainstream estetico e formale con nessuna identità il lavoro di molti autori italiani rappresenta un tentativo di costruire legami simbolici e radicamento con luoghi che stanno cercando di ridefinire una personalità per un futuro che chiede innovazione sociale oltre che tecnica, misura umana oltre che performatività, calore domestico invece che ambiente spersonalizzati e pronti al consumo.

Ogni volta che la cultura architettonica italiana ha avuto la forza e l’autonomia di uno sguardo laterale e critico sul progetto ha generato lavori e azioni teoriche originali che hanno saputo fare la differenza.

Probabilmente il destino degli architetti italiani non è quello di seguire il pensiero dominante scritto da altre culture, ma è quello di essere nomadi, viaggiatori curiosi, umili e consapevoli della storia che portano, cultori ossessivi del “fatto ad arte”, innamorati della vita che scorre nei luoghi in cui sono chiamati, attenti alle lingue oscure e ai sensi che ogni luogo è capace di risvegliare. Solo così il progetto contemporaneo avrà la forza di produrre futuro e di lasciare segni originali che varrà la pena ricordare negli anni.

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